Molti praticanti di Tai chi hanno spesso sentito dire che praticare la Forma equivale ad una meditazione in movimento. Ma cos’è la Meditazione e, soprattutto, a cosa serve? E perché praticare la Forma viene paragonato al meditare?
Chi coltiva uno “stato meditativo” da un certo numero di anni, ha compreso che quello stato si genera solo quando c’è un “io” presente al centro di ogni azione od esperienza; senza quell’io non vi è Meditazione, poiché non vi è una consapevolezza che osserva, che si sforza di comprendere gli eventi.
Per accedere ad uno stato meditativo è necessaria concentrazione, silenzio mentale, capacità di farsi “attraversare” dalla vita (solo in un secondo momento si potrà analizzare mentalmente ciò che abbiamo vissuto).
La Meditazione è quindi uno stato di coscienza che coglie la vita mentre scorre, che coglie la Realtà mentre scorre. Per un certo tempo può anche non capirci niente di ciò che percepisce, oppure può avere delle intuizioni che non riesce poi a tradurre in parole, in concetti.
Ma nel frattempo, se ci si allena non solo ad essere attenti “testimoni” della realtà che ci scorre sotto il naso, ma anche a riflettere “attivamente” su ciò che andiamo via via sperimentando, qualcosa in noi cresce, matura, e si cominciano a vedere chiaramente tante cose.
CHI SONO IO?
Qualunque matematico sa perfettamente che le linee e le forme solide tridimensionali non sono altro che una successione di punti.
Un unico punto si mette in movimento, e il suo muoversi nello spazio genera delle linee, che a loro volta danno origine a delle forme solide; le immagini che scorrono sullo schermo di un computer sono basate sullo stesso principio: una successione di otto punti (8 bit) formano un pixel.
Al pixel viene attribuito un valore simbolico, come una lettera o un punto colorato ed è la parte più piccola che vediamo sullo schermo (ancora il punto). Una successione di pixel forma linee e forme.
La forma è quindi generata dal punto. La forma può anche cambiare all’infinito, il punto no, il punto resta sempre se stesso.
Ecco, quel punto che non cambia mai siamo noi; esso è una scintilla di autoconsapevolezza, di autodeterminazione; mentre tutto ciò che facciamo, diciamo o costruiamo non sono altro che nostre espressioni: forme nate dal punto, ma passibili di scomparire o di trasformarsi in altro.
MEDITAZIONE IN MOVIMENTO
Quando siamo nella posizione di partenza (il wu chi) siamo il punto immobile e autocosciente; in quel momento tutto in noi è solo potenziale: tutto può succedere.
Poi scatta un impulso. e iniziamo a costruire la Forma; una Forma che non sarà mai identica a quella di ieri o di un mese fa. Potrà essere una Forma con più o meno “sbavature”, con più o meno momenti di assenza, di distrazione.
Sarà come creare una composizione artistica e la nostra “mano” può essere più o meno ferma, sicura.
La prima cosa che salta all’occhio, in questo tipo di addestramento, è che scopriamo una maggiore consapevolezza nel movimento (e maggiori difetti di movimento).
Di solito, all’inizio, ci scopriamo disarmonici, rigidi, scoordinati. Ecco, quello è il miglior punto di partenza per “meditare” sul nostro modo di muoverci, non solo nel Tai chi, ma anche nella vita: quanto siamo consapevoli di ogni nostro gesto? Quanto siamo armonici, fluidi?
Inoltre, creare una Forma è una operazione meravigliosa, che sa di magia; ma mai “cadere” nella Forma e farla diventare uno strumento di identificazione.
Se ci identifichiamo con la Forma (nel Tai chi così come nella vita) cadremo nelle dicotomie mentali ed emotive: “Guarda come sono bravo, bello, sicuro di me, ecc.” oppure: “Dio quanto sono rigido, goffo, incerto”.
Cercare la bellezza delle forme è sano e giusto, ma diventare vanitosi ed esibizionisti o timidi e insicuri, vuol dire aver dimenticato che siamo il punto non la forma, che tutto nasce dal wu chi e lì ritorna.
La bellezza delle forme nasce da un addestramento che sfocia nella naturalezza creativa e deve essere seguita dal distacco dalla forma.
Costruire qualcosa è una espressione intima, un canto silenzioso alla vita e la capacità di lasciarsi andare nel vuoto e nel silenzio quando il canto finisce.